domenica 22 agosto 2010

Condanna a sorte.


Il boia sorride sotto al cappuccio. Quello strato lercio di tela grezza, viene meno all'impegno preso all'atto della sua stessa foggia. Copre il volto dell'assassino ma, insolente e lascivo, non rifiuta il moto dei muscoli del viso e se ne lascia contrarre. La gente lo sa, lo vede, lo sente. Anche passando affaccendata in altre e più personali commissioni, percepisce la gioia della morte inflitta per mezzo del ferro.  Allora si ferma anche il più piccolo degli esseri umani produttivi e si concede uno spettacolo tanto eccitante quanto a buon mercato. Come sempre, in anticipo di qualche minuto rispetto all'ora stabilita. Il sole, lo sento, anche se ho da mirare per forza di cose il lastricato greve e sudicio,  è quello tiepido ed educato delle otto del mattino. Lo stesso che illumina il cielo dei ricordi più belli. Non c'è amarezza nell'esecuzione e nemmeno nella condanna, né ingiustizia nell'accanimento, è solo il sacrificio naturale del numero tra i numeri. Il culmine della punizione è nell'attesa cattiva, somministrata per giorni. Giorni tremendi di ozio e dolore. In troppi libri si legge del perdono sempre concesso, pochi istanti prima dell'ultimo respiro. E' in questo modo che l'uomo s'illude di dare senso al misfatto, all'accaduto, ad ogni singolo giorno di pena. Nell'ultimo sguardo al cielo, nelle lagrime asserragliate sotto agli occhi, nell'espressione fiera ed insieme impaurita, si concentra tutto il mestiere dell'arte di vivere, di recitare. Tratta con forza al cielo, la lama gonfia il petto e sussurra un sibilo di gioia. Cadendo, porta con il proprio, il peso della libertà, quella definitiva.  In un moto di folle sollievo urto la biro, cade, sbatto le palpebre, il capoufficio mi guarda con sguardo cattivo. Da poco è passata l'ora della paga. Con il cappello alla mano lascio l'ufficio. Speriamo nel buon sonno stanotte. Domani sveglia all'alba, domani siamo d'esecuzione.

sabato 21 agosto 2010

Balle di sapone.

Non è il caldo che opprime od una generica rarefazione dell'aria. Sono questi enormi globi trasparenti e lucidi. Soltanto con grande fatica si riesce a scostarne qualcuno con il dorso della mano aperta. Non esplodono e se lo fanno è senza rumore. Raramente vanno in frantumi, lasciano le palpebre contratte nel timore del botto che non arriva.  Una delusione espressiva poco comune. Né acqua, né sapone, solo parole.

Il cursore nero.



Terrore dei mari, di tutti quegli oceani senza fine e senza fondo, dentro ai quali si perdono le parole non scritte ma anche quelle soltanto pensate. Gli stessi mari profondi, sulle onde dei quali s’infrangono gli schiaffi del vento, quelli sui quali le belle frasi sussurrate, languono irretite dal proprio stesso rollio. Piccolo e potente, mobile e tenace. Spesso languido invito al fallimento, alla frustrazione, al movimento vano ed arrogante delle mani. Non solo per ore, caro amico, non per giorni. Mesi su mesi, passati dentro alle corde che stringono gli stessi polsi che un tempo, non lontano e non migliore, tagliavano l’aria in preda alla follia ed al rigurgito della sofferenza. La bellissima cattiveria delle cose, per quanto lontano possiamo correre, rimane in agguato, pronta a continuare l’amaro mestiere di persecuzione a cui è votata. Ovunque nel mondo, affacciandosi anche solo per un istante sul foglio elettrico e bianco, rimane in attesa, con moto nervoso e tremendamente costante, simile al piede impaziente di chi aspetta il nostro ritardo, pronto ad assalirci, rinfacciandoci, nell’occasione, tutte le nostre mancanze. Contrabbandiere furbo e smaliziato. In apparenza innocuo vicino di casa. Discreto compagno di giochi. Disponibile quando serve, aguzzino senza cuore ad ogni caduta. E’ il sasso sul cammino, la corda lungo il percorso, il chiodo sotto al pneumatico, la porta senza chiave nella nostra “città personale”. Maledetto!